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PENSIERI E PAROLE IN LIBERTA’ “Mentre la città era in festa, all’improvviso ricordai di tutto…”

di Benvenuto Caminiti Ormai sono vecchio, mezzo scassato, la testa mi va a sprazzi, mi scordo le cose, vagheggio e cazzeggio spesso più del lecito, insomma quasi un impiastro e tutti quelli.

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di Benvenuto Caminiti Ormai sono vecchio, mezzo scassato, la testa mi va a sprazzi, mi scordo le cose, vagheggio e cazzeggio spesso più del lecito, insomma quasi un impiastro e tutti quelli che hanno a che fare con me, compresi moglie e figli, non ne possono più e qualche volta me le cantano e me le suonano come merito. Sono diventato egoista, scontroso, permaloso, persino vendicativo, io che non lo ero mai stato in gioventù. Misantropo lo ero anche prima, ma ora … esagero: non voglio vedere nessuno, me ne sto tutto il santo giorno a casa mia a rimuginare e pensar male di tutti, del mondo intero. Ma non sono un “mostro”, anch’io ho le mie buone ragioni per esser diventato come sono. Una su tutte: gli anni che incalzano e non hanno rispetto di niente e di nessuno, tanto meno di me che forse non me lo merito nemmeno. Sono l’ultimo di sette fratelli (anzi, solo di tre, gli altri non ci sono più); sapete? Le famiglie numerose di una volta, le mamme di una volta che non si stancavano mai; mai un lamento, se non per la schiena che si spezzava per il troppo lavare, stirare, cucinare... Io vorrei guardare sempre avanti, non voltarmi mai indietro, che mi costa solo dolore, ma non ci riesco, quel che mi si para davanti ogni giorno non mi aiuta, una volta c’era più rispetto, più pudore, più dignità. Così ripenso al passato, al rispetto, al pudore, alla dignità di una volta. E mi pare di essere diventato quasi un intruso, un corpo estraneo, e mi intristisco, mi chiudo ancor di più nel mio particulare, respingendo i messaggi che provengono dall’esterno. Tutti, persino quelli (invero assai rari) positivi, così, per l’istinto di conservazione ch’è in tutti noi. Che posso farci ormai? Poco o niente, l’età è quel che è, per guardare avanti ci vuole più fantasia di quella che pure non mi è mai mancata; ci vuole coraggio, che invece non è di tutti: o ce l’hai e non te lo puoi dare. Io ce l’ho o, meglio, scopro di averlo quando l’ultima passione vera della mia vita, quella – la sola – che resiste a tutto e a tutti, la mia passione rosanero, si illumina di immenso. E ieri lo ha fatto, alla grande, gridando al mondo intero che nel calcio, come nella vita, se ci metti il cuore hai una chance in più, diventi imbattibile. Anche al cospetto dei campioni d’Italia del Milan, che erano sicuri di prenderci a pallate e qualificarsi facile per la finale di Roma. Ecco, il Palermo mi rimette in sesto come per miracolo, spazza via in un attimo tutte le mie paure, mi riporta indietro nel tempo, mi regala un’illusione, la più bella, l’unica irrinunciabile: quella di essere eterno. Eternamente un ragazzo. Così mi sono sentito martedì sera al triplice fischio finale di Rocchi di Firenze: un ragazzino capace di prendere d’infilata le scale dello stadio per correre insieme a tutti gli altri verso il Politeama, là dove i tifosi festeggiano i momenti solenni della storia rosanero. Eravamo tutti là la notte del 29 maggio del 2004, per cantare sotto le stelle la nostra felicità per il Palermo finalmente tornato in serie A. E là ieri siamo tornati. E c’ero anch’io, con i miei acciacchi, mezzo scassato, con la testa che va a singhiozzo e la memoria che salta da un decennio al’altro, mescolando il tutto come in un caleidoscopio impazzito. E non sentivo gli acciacchi e mi sentivo lucidissimo e mi ricordavo di tutto, del rigore infame di Gonella nella finale col Bologna del ‘74 e del gol a tre minuti dalla fine dei supplementari in quella del ‘79 dell’ex Causio, uno che cominciò a diventare campione con la nostra maglia, ma che nel dopopartita non ebbe una sola parola di ...pietà per la sua ex squadra: “Sono felice, strafelice - disse, e quelle parole ieri sera me le sono ricordate mentre mi fischiavano le orecchie per i clacson assordanti delle auto che filavano verso il Politeama – di aver portato questo trofeo alla mia Juve che, senza, sarebbe rimasta per la prima volta fuori dall’Europa!”. Ansimavo, rannicchiato in un angolo della macchina dove mi ero intrufolato senza chiedere il permesso (il ragazzo che guidava rassicurò così i suoi compari: “U canusciu, fatilu acchianari, è unu re nuostri!”), il cuore mi rimbombava come un tamburo impazzito ma chissenefrega, ero felice e, soprattutto, ero insieme a tutti gli altri, tutti quei tifosi veri e non dell’ultima ora, che palpitano da sempre per il Palermo, che non hanno mai tradito la fede rosanero. Neanche ai tempi di Afragola e Valdiano. E con tutti gli altri sarò a Roma per la finalissima e stavolta per vincerla ‘sta benedetta coppa che ci ha strizzato l’occhio già due volte ma solo per inganno e per lasciarci alla fine con un grumo in mezzo al petto che più passano gli anni più diventa velenoso. Ma ancora per poco, solo per un’altra ventina di giorni ed anche meno perché la notte del 29 maggio dell’Olimpico sarà la nostra notte, quella che ci restituirà il maltolto del ’74 con gli interessi: ovvero giocare e vincere contro l’Inter, la squadra campione del mondo che se non vince la coppa quest’anno sarà come aver fallito un’intera stagione. E non se lo può permettere, ma non ce ne frega un tubo perché quella notte avrà di fronte un Palermo invincibile, reso tale dal suo grande, grandissimo cuore e dalla passione dei suoi tifosi. Che, ne sono sicuro, pur arrivando da lontano, saranno di più, molti di più degli interisti. Anche perché la fame che abbiamo noi, tifosi del Palermo non ce l’hanno certo loro, abituati a vincere e quindi se non sazi, quasi. E poi, amici miei, non vorrei ricordarvelo, perché poco elegante, ma io l’avevo scritto a chiare lettere che questa finalissima sarebbe stata nostra. E non era stato solo un pronostico, ma di più: quasi una “visione”, un lampo di luce che mi indicava la strada sicura. Non potevo sbagliare. E non ho sbagliato. Non sbaglierò neanche stavolta: armiamoci e partiamo tutti per Roma, andiamo a scrivere la storia. Ce lo meritiamo.