Lunga intervista del direttore sportivo Gianluca Petrachi, ex Roma e Torino come ultime esperienze, a Numero Diez:
Serie A
Serie A, Petrachi: “Potevo portare Lautaro Martinez al Torino. Quando presi Bremer…”
"Ho cercato sempre di dire quello che penso anche se, a volte, soprattutto nel mondo che viviamo attuale, forse non paga. A volte ho dovuto ricominciare da capo, perché dire totalmente quello che si pensa, può farti indietreggiare e farti perdere delle posizioni. Io a 55 anni non ho niente di cui vergognarmi".
OPERAZIONE PIU' DIFFICILE AL TORINO - "La più complessa è la trattativa con cui abbiamo portato Cerci al Torino. L’avevo portato al Pisa: avevo Cerci, Kutuzov e Castillo, che fu anche capocannoniere. Cerci si ritrovava con me e con il mister: sapevamo quanto potesse essere importante e determinante. Ricordo molto bene anche quando ho preso Maxi Lopez. Era un giocatore che nessuno più voleva, aveva fatto 3-4 partite e il Chievo Verona se ne voleva disfare. Io ero su Pinilla, perché all’epoca eravamo in piena zona retrocessione e ci serviva l’attaccante. Pinilla sceglie il Torino, dall’apertura del calciomercato mi viene soffiato dall’Atalanta. Allora mi fiondo su Maxi Lopez. Naturalmente ero solo contro tutti, perché dicevano che ormai Maxi era un ex giocatore. E invece, a partire da gennaio fece 10/12 gol. Dalla zona retrocessione, ci ritrovammo in Europa".
BREMER - "Ne ho subite di ogni quando è arrivato Bremer, anche perché 5 milioni per il Torino erano tantissimi. Noi eravamo abituati a spendere 2-3 milioni, quelli che ci avevano permesso di monetizzare con Darmian. Quando sono andato a vederlo in Brasile, Bremer era un ragazzino giocava poco, però mi colpì questa grandissima personalità, questa velocità, questa forza. Io ero andato lì anche per chiedere Verissimo. Dissi al Presidente: ‘Per Verissimo sarà difficile, perché il presidente del Santos sta giocando al rialzo, è arrivato a 10 milioni'. Alla fine prendemmo Bremer, anche se certamente andava lavorato. Inizialmente Mazzarri voleva un giocatore pronto da mettere subito dentro, invece Bremer non lo era. Infatti, non l’ha fatto giocare da subito, per sei mesi l’ha lasciato in panchina senza farlo mai debuttare. Una volta lo trovai al Filadelfia con i lacrimoni che mi diceva: ‘Direttore, non so più che fare, perché io mi impegno al massimo’. E poi, come tutte le situazioni, sono venuti meno due giocatori del reparto difensivo e Bremer è stato buttato dentro. Lui si è fatto trovare pronto e da lì è stato un crescendo. Sicuramente è una delle operazioni che mi ha gratificato maggiormente. Il direttore sportivo vive anche di queste cose: la più grande soddisfazione è vedere la prospettiva del calciatore".
IMMOBILE - Non ho mai abbandonato Immobile, gli sconsigliai di andare a fare questa esperienza in Germania. Lui ha i connotati di un giocatore che deve rimanere in Italia. Ciro è un napoletano ruspante, uno molto sanguigno, legato alla famiglia. Io non ce lo vedevo proprio in Germani. Perché lui è un animale sociale, fa sempre casino. Io gli sconsigliai di non andare, onestamente. Però poi nel percorso, tanto sapevo che sarebbe tornato, l’ho seguito. Dopo quelle stagioni in cui non fece benissimo, gli dissi: ‘Se vuoi, io ti porto dentro. Torni a fare quello che sai fare e poi, se Dio vuole, avremo la forza di riscattarti e prenderti’. Io non facevo sotto indicazioni dirigenziali, mi sono sempre reputato un aziendalista. Il Presidente poteva spendere quei 10-12 milioni all’epoca, che era il riscatto che avevamo acquisito. Lui venne e fece benissimo. Un mese prima della fine del campionato, attraverso il suo agente Sommella, mi disse che non era più contento e che voleva, per motivi personali, fare una scelta diversa. Ne parlai con il Presidente e gli dissi che Ciro non voleva più rimanere. Quindi, non lo riscattammo per volontà del giocatore".
BELOTTI - Il presidente ebbe la brillante idea di mettergli una nuova rescissoria a 100 milioni in uscita. Questo perché il presidente sa fare marketing e sa vendere il proprio prodotto. Per Belotti il Milan si presentò in maniera consistente. Quello era il Milan dei cinesi, quindi non c’erano garanzie economiche. La formula del Milan sarebbe stato un prestito con un obbligo di riscatto, ma il pagamento veniva posticipato nei 4/5 anni successivi. Quindi, nell’operazione da 55 milioni, avresti visto solo una parte dei soldi, gli altri negli anni successivi. In quel momento evidentemente il presidente non se l’è sentita, però c’è da dire che il giocatore voleva andare. Quindi da lì si innescano dei meccanismi che non fanno bene né al calciatore, né al club. Al Milan, Belotti avrebbe quadruplicato il suo ingaggio. Noi glielo sistemammo, ma non avremmo mai potuto raggiungere le cifre del Milan".
LAUTARO MARTINEZA AL TORINO - Andai innanzitutto a vedere il campionato sudamericano. Vidi sia Lyanco, che poi ho preso, che Lautaro Martinez: erano i due giocatori che mi piacquero di più in quel torneo. Volevo prenderli entrambi, ma a noi serviva immediatamente un attaccante. Attraverso Alessandro Moggi, che aveva degli ottimi rapporti con il fratello di Zarate, l’agente di Lautaro Martinez al Racing, dissi che volevo il consenso del giocatore. Il problema non era l’ingaggio, ma il prezzo del cartellino. Il giocatore l’avremmo potuto chiudere sui 7-8 milioni di euro, ma ballavano 3 milioni di commissioni. Commissioni del genere, al Torino, non le avevamo mai pagate. Dissi ad Alessandro di parlare con Cairo dicendogli i numeri reali. Magari sul cartellino non avrebbe sbattuto ciglio, ma i 3 milioni non li avrebbe fatti passare. E quindi, purtroppo, la trattativa non andò a buon fine e mollammo il colpo. Però sicuramente era un giocatore che volevamo prendere, i diretti interessati lo sanno".
ROMA - "Io ho speso complessivamente, per 10/11 giocatori, circa 70-80 milioni di euro. Io avevo tantissime zavorre che mi portavo dietro da quel tipo di mercato che era figlio del mio lavoro. Quei soldi che ho utilizzato per comprare i giocatori li ho presi dalle cessioni di tantissimi giocatori. Si fece un mercato straordinario e si lavorò tantissimo. La Roma che vince la Conference League, presenta 7/11 che c’erano nella mia gestione. La difesa, ad esempio: Mancini, Ibanez, Smalling, Spinazzola. E poi c’era anche Veretout. C’è qualcuno che dice di aver pagato troppo il portiere Pau Lopez: l’ho pagato 18 milioni, non 30 come si diceva. Però, alla fine della fiera, l’hanno rivenduto per 14 milioni. Petrachi non ha lasciato dei buffi o fatto disastri. Anzi, l’unico giocatore che la Roma ha venduto, l’ha preso Petrachi a 8 milioni e l’hanno venduto 30: Ibanez".
MKHITARYAN - "Lì è stato previsto da Mino Raiola. Gli potevamo offrire al massimo 3 milioni di ingaggio. Lui guadagnava 5/6. Io quindi feci le due operazioni, sia Smalling che Mkhitaryan, con questo tipo di situazioni. E si rivelano evidentemente due giocatori straordinari. Perché poi, alla fine, credo che il cambiamento abbia portato Mkhitaryan via dalla Roma. Con un altro indirizzo tecnico, secondo me, Mkhitaryan non avrebbe mai lasciato la Roma. Anche lui è un ragazzo straordinario, a cui sono molto legato e molto affezionato".
CONTE ALLA ROMA - Conte, da un certo punto di vista, ha la fiducia di Gianluca Petrachi perché diventi allenatore. Perché chi l’ha mandato all’Arezzo, dal compianto Ermano Pieroni, fu Gianluca. Parlai con Pieroni e gli dissi che secondo me Conte sarebbe stato l’allenatore del futuro. Secondo me ha delle capacità fuori dalla norma. Con Antonio c’è stata sempre una visione calcistica molto similare, vediamo le cose allo stesso modo. Ci conosciamo dal settembre dell’81, una vita fa. Però, tatticamente e calcisticamente, abbiamo avuto la stessa visione. Quindi ci siamo confrontati e lo continuiamo a fare anche oggi. È naturale che, andando alla Roma, la cosa più bella sarebbe stata quella di portarsi una persona con cui condividi calcio. Io, per esempio, condividevo calcio con Ventura. Quindi questa sinergia diventa ancora più potente, ancora più forte. Però poi alla fine si devono incastrare tante cose. E in quel caso non si sono incastrate".
COSA NON HA FUNZIONATO - "Io credo che, innanzitutto, non abbia funzionato la distanza tra me e il presidente Pallotta. Tra Pallotta e Petrachi c’era l’amministratore delegato Fienga, con cui ho avuto un ottimo rapporto, ma che non è stato un rapporto totalmente veritiero. Siccome sopravvivo con l’inglese, non sono bravissimo a parlarlo, col presidente non ci si trovava mai a parlare di calcio, a spiegare determinate scelte… Sono tutte dinamiche che venivano rimbalzate di sponda al presidente. Mi sentivo tranquillo ma dopo la vittoria di Firenze neanche mi sono arrivati gli auguri di Natale. Capii che stavo perdendo forza e purtroppo la mia istintività ha fatto sì che scrivessi un messaggio al Presidente non proprio bello. Un messaggio di aiuto, un grido d’allarme: ‘Mi stai abbandonando, però se c’è qualcosa parliamo da uomini!’ E da lì poi si è innescato un meccanismo al contrario. Non c’è stato mai nulla di così grave, di così offensivo. Il mio era un richiamo al fatto che mi dovesse dare forza, perché stavo perdendo di mano quella che era la situazione. Lì ero solo, non ho viaggiato sempre con collaboratori".
CHIAMATE - Sì, dopo circa un anno mi cercò la Sampdoria, quando il presidente era ancora Ferrero. Mi presi del tempo, non vedevo tanta chiarezza, non volevo ritrovarmi dalla padella alla brace. Preferisco aspettare e ho preso del tempo. Poi lo scorso anno parlai con il presidente Setti del Verona. Diciamo che c’era stata qualcosina, però alla fine ci sono cose che si devono anche incastrare. Poi io vivo molto in passione e il calcio per me continua ad essere tale. Il dio denaro è sempre venuto dopo. Estero? Ho avuto due-tre richieste ma ho una figlia disabile che non mi permette di spostarmi".
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