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LA LETTERA

Belotti si racconta: “Il Gallo e quella scommessa, Vialli fondamentale. Il Milan…”

Palermo
L'attaccante della Roma si racconta a Cronache di spogliatoio

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"Prima di parlarvi di me, devo raccontarvi una cosa. Sfatare una volta per tutte un mito: perché mi chiamo «Gallo»". Inizia così la lunga lettera scritta da Andrea Belotti, che ha deciso di raccontarsi al sito "Cronache di Spogliatoio", svelando diversi aneddoti della sua vita e della sua carriera di calciatore.

IL SOPRANNOME -"È la sera del 3 settembre 2012. Il mio amico Juri, come ogni sera, sta gestendo la sua clientela al Bar Cocktail di Calcinate, il paese in cui sono nato, in provincia di Bergamo. Lo ha aperto da qualche mese e le cose gli stanno andando bene. E proprio perché sta funzionando tutto alla grande, è nel weekend che il lavoro aumenta a dismisura. Talmente tanto che non è ancora riuscito a venirmi a vedere. Io ho 18 anni e gioco nell’Albinoleffe, in Serie C. [...] Juri di cognome si chiama Gallo e il primo a esultare con la cresta è stato proprio lui. Segnava in tutti i modi, un vero e proprio bomber. Depositava il pallone in rete sui campi di provincia e correva a esultare mimando la cresta. Un «fuori di testa», pensavo. La sera del 3 settembre è la sera in cui mi ha chiamato per dirmi: «Andrea! Sono riuscito a liberarmi. Domani al bar mi copre mio padre, vengo a vederti». Ero gasatissimo. Il giorno dopo giocavamo in casa contro la Feralpisalò. Data la circostanza storica, facemmo una scommessa: «Finalmente vengo a vederti. Promettimelo: se segni, esulti con la cresta del gallo in mio onore». L’arbitro fischia l’inizio della partita. Passano due minuti e Karamoko Cissé mi serve un pallone. Prendo e lo scaravento in rete. Non ci penso un attimo: corro sotto la tribuna e inizio a mimare la cresta del gallo come un pazzo. Tutti corrono ad abbracciarmi. Volete saperlo? Juri, quel giorno, si è presentato in ritardo di tre minuti. Mentre parcheggiava, ha sentito il boato dello stadio. Ho fatto la cresta... per nessuno. Ma che fai? Hai segnato dopo due minuti... non la riproponi? Dopo la partita siamo scoppiati a ridere: «Andrea, sono arrivato in ritardo, devi rifarla!». Era un’esultanza che non si era mai vista. Ho iniziato per gioco, mi è piaciuta, e ora eccomi qui: il Gallo Belotti", ha rivelato l'attaccante della Roma.

LA FEDE -"Il Gallo Belotti è nato con la fede e cresciuto in oratorio. Per me, la casa di Don Sergio era un punto d’incontro: c’era sempre qualcuno che giocava a calcio, a basket, a pallavolo. Ci ritrovavamo lì, semplicemente, anche durante la settimana. Ricordo che la domenica, appena finiva il catechismo, andavamo in chiesa per la benedizione. E poi via, in campo. Ci posizionavamo nelle due metà e potevamo tirare senza oltrepassare il centrocampo. Ci si fermava anche per 3 o 4 ore. Cioè, era proprio bello. La chiesa mi ha accompagnato: facevo il chierichetto e a casa i miei genitori mi hanno trasmesso fin da piccolo la fede. È un qualcosa che da sempre vive dentro di me. La preghiera prima di ogni pasto, la preghiera prima di andare a dormire. Io credo veramente: ognuno è libero di farlo con la potenza che vuole, non è un obbligo. Ma per farvi capire: io ho due idoli. Il primo è Giovanni Paolo II: nessuno ha fatto quello che ha fatto lui, le sue gesta sono di gran valore. Il secondo è Don Sergio, il parroco di Calcinate [...] Ciò che il Don creava in oratorio era davvero una magia. [...] Ho avuto l’onore di incontrare Papa Bergoglio con la Nazionale, mi piacerebbe tornare a far benedire i miei figli".

CREDO -"Credo nella fede e nei valori. Credo alla fedeltà e alla sincerità nei rapporti interpersonali. In ambito sportivo credo nel lavoro e, a volte, anche nel destino. Credo nel gol, davanti alla porta. Credo nella determinazione. Credo nell’essere istintivo: faccio il lavoro più bello del mondo e allo stesso tempo lo amo follemente. Credo che quando entro in campo, sono la persona più felice che ci sia. Credo che il pallone mi faccia esprimere tutto quello che ho dentro attraverso una passione forte. Basta guardare come ho abbracciato Spinazzola dopo il gol al Salisburgo. Sono esploso, l’ho travolto: penso che si sia accorto che avrei potuto trascinarlo a terra, infatti mi ha spinto prima che potessi sbatterlo sull’erba! Credo nell’abnegazione: se tu, ogni giorno, lavori per migliorare mettendo quel qualcosa in più, io sono certo che in partita in un modo o nell’altro verrai ripagato. In campo sono testardo: tra i miei amici, sono arrivato soltanto io".

IL CALCIO E LA NAZIONALE - "Il nostro mondo è talmente strano che passi da essere l’ultimo considerato a essere il numero uno. Se avessi fallito? Magari avrei continuato con gli studi. Quel giorno, decisi di investire su me stesso. Quando sono arrivato all’Albinoleffe, facevo il mediano. Mi spostarono esterno sinistro. Fu mister Pala a trasformarmi in attaccante. Ha cambiato la mia vita con un’intuizione. È stato anche l’artefice del mio approdo in Nazionale. [...] Da lì, il mio rapporto con l’azzurro non si è mai fermato fino alla notte di Wembley. Sono caduto a picco con le mancate qualificazioni ai Mondiali, ma ho pianto quando abbiamo vinto l’Europeo. Qualcosa di unico. Fin dal primo giorno, c’era felicità. Durante gli allenamenti, nessuno si tirava indietro. Durante le partite, ognuno era disposto a dare tutto per l’altro. C’era un entusiasmo atipico. Capimmo fin da subito che c’erano gli estremi per scrivere una pagina destinata a rimanere nel tempo. Il gruppo di giocatori era di livello, mister Mancini è stato bravissimo. Ma ci tengo a dire una cosa. Una persona fondamentale, per me, è stata Gianluca Vialli".

SU VIALLI -"Ho in mente un momento. Una mattina, dopo colazione, arrivo al campo un’ora prima, pensando di non trovare nessuno. E invece c’era una persona che correva da sola. Un’ora prima dell’appuntamento. Era lui. In quel preciso istante, ho pensato che nonostante tutte le difficoltà che stava passando, lui stava correndo. Con la sofferenza che aveva dentro, con i milioni di problemi che si portava dietro. Con la sua forza. Gianluca era pronto ad aiutarti, sempre. Eppure era lui quello che aveva bisogno di aiuto. Quando vedi una persona dare tutto quello, ti guardi dentro e senti che ti sta trasmettendo una forza devastante. Sono convinto che vivrà per sempre dentro di noi. Ci sono delle persone che hanno un dono: lui aveva quello di saperti entrare dentro. Ricordo che, io e lui, restavamo anche 5 ore a parlare. Io lo fissavo, imbambolato, osservando la sua bocca. Non volevi perdere neanche una parola di quello che ti diceva. Era una grande persona".

LA FAMIGLIA E IL MILAN - "Ho sempre reso felice il mio paesino con i miei gol. Sia per la felicità di esultare, sia per i salami che mia nonna mi regalava come premio dopo ogni rete. [...] La mia famiglia ha sempre cercato di alleggerirmi i momenti: belli o brutti che fossero. L’estate dei 100 milioni, il mio nome era da tutte le parti. Si leggeva «Belotti» ovunque. Probabilmente, all’inizio sono stato consigliato nel modo sbagliato. Ho avuto la forza di lasciar correre. Si diceva che era fatta con il Milan per 58 milioni, che dovevo andare a giocare la Champions League. Si parlava ovunque della mia valutazione, di quanto valesse Belotti, di cosa dovesse fare Belotti, di quale fosse l’opzione migliore per Belotti. Credo nell’equilibrio. Questa è la storia del Gallo. Di Andrea. PS: ho un quaderno qui accanto a me. Questa lettera voglio terminarla su un altro foglio. Ci scrivo una promessa: se a fine stagione riuscirò a esaudirla, ve la mostrerò", ha concluso l'ex Palermo.

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