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Schillaci ricorda quel 23 maggio 1992: “Io, Trapattoni, Giovanni Falcone e la strage di Capaci”

(Ph. Gianluigi Rappa)

Nella sua autobiografia "Il gol è tutto", l'ex attaccante palermitano ha raccontato quel tragico giorno: il 23 maggio 1992 morivano Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. Lui era in ritiro con la Juventus...

Mediagol7

Giornata speciale per la lotta alla mafia: si ricorda Giovanni Falcone.

Era il 23 maggio 1992, erano le ore 17.56, quando sull'autostrada che collega l'aeroporto di Punta Raisi con Palermo - all'altezza dello svincolo di Capaci - 572 chili di esplosivo hanno spazzato via le tre auto (e le vite) su cui viaggiano il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la sua scorta.

Chi nella sua autobiografia "Il gol è tutto", scritta con Andrea Mercurio, ha voluto raccontare quei momenti e rendere omaggio all'eroico magistrato è l'ex bomber di Italia '90, Totò Schillaci, quel tragico giorno in ritiro con la Juventus di Giovanni Trapattoni.

"'Avete ucciso anche Falcone'. 'Mister, io ero con Baggio, può chiedere a lui: oggi non ho ucciso nessuno'. Rispondo così, distrattamente e con una bozza di sorriso, al commento con cui Trapattoni mi accoglie a tavola, nella sala dell’Hotel dove viene servita la cena. Scansiono l’intera tovaglia con lo sguardo per esaminare cosa c’è da mangiare. Mi interessa più quello delle parole del mister, che ritengo una battuta, anche se non capisco perché l’abbia fatta. Trapattoni, però, non ride. I volti dei compagni sono stranamente cupi. C’è un’aria pesante e non è per via della partita. È il 23 maggio 1992. Sono in ritiro con la Juventus a Verona per l’ultima giornata del campionato. Il risultato non conta, siamo matematicamente secondi in classifica. Non c’è motivo per essere preoccupati. Il buio su quei volti non riguarda noi. Quella del Trap non è una battuta; è il suo commento su quanto accaduto poche ore fa e lo intuisco voltandomi verso il televisore. Due auto distrutte, una montagna di macerie sulla strada scoperchiata, un nugolo di curiosi e carabinieri incorniciati dal cartello stradale che indica un bivio: dritto Palermo, a destra Capaci. 'Avete ucciso Falcone' mi ha detto.

Avete chi? HANNO ucciso Falcone. E’ stata la mafia, con una bomba. Io sono di Palermo, sì, ma non sono un malavitoso. Dove sono nato e cresciuto io, nel Cep, il quartiere popolare di Palermo, ogni giorno ci si trovava metaforicamente sotto il cartello che oggi impera in tutti i telegiornali: Capaci a destra. Palermo dritto. La prima uscita da quel mondo di privazioni e sofferenza è la criminalità, è vero. E’ la soluzione più vicina e l’unica che sembra possibile a chi non ha la benzina per provare a svoltare qualche chilometro più avanti. Nello stesso modo in cui ovunque si formavano le squadre nelle partite per strada, da noi si allestivano bande criminali: i due capitani selezionavano i giocatori per scippi o rapine, contendendosi i più grossi per primi e lasciando in fondo il più scarso, quello che nel calcio veniva messo in porta. La coppa era una consistente somma di denaro, impolverata di violenta illegalità. Era facile cadere in questa tentazione, ma c’era anche chi trovava in se stesso o nella famiglia il carburante per andare dritto, verso la Palermo onesta e, magari, portarne con fierezza la targa in altre città d’Italia o del mondo. E poi c’è chi, come me, è stato salvato dalla distrazione. A me l’uscita della criminalità è scappata. Non l’ho vista perché ero distratto dal pallone. Mi interessava solo quello e ci giocavo dalla mattina alla sera. Avevo solo voglia di vincere. L’attenzione e la passione per il calcio mi distoglieva dalle necessità, dall’assenza di prospettive e dalla tentazione di una soluzione rapida ai tanti problemi in cui era incastonata la vita nel Cep.

Quel pallone mi aveva portato a tavola con la squadra più titolata d’Italia, una delle più blasonate al mondo; quella per cui tifavo da bambino. E ora l’allenatore mi dice che IO ho ucciso Falcone. Ma io non ho girato per Capaci. Io sono rimasto per strada, letteralmente, per arrivare fin qui. Onestamente e senza uccidere nessuno. Almeno fino a oggi. Questo pensiero mi rimbomba nella mente per tutto il giorno seguente. Mi sforzo di concentrarmi, ma non riesco. In campo, Trapattoni fischia e urla. Cosa non lo so. 'Sali? Incrocia con Casiraghi? Tieni alta la squadra?'. Non lo so. A me arriva ancora alle orecchie la frase che mi ha rivolto ieri sera e l’aggettivo sottinteso: mafioso. Realizzo che il motivo per cui mi ferisce così tanto è che, forse, avrei potuto diventare davvero un criminale, se il calcio non mi avesse salvato. Mi muovo con lentezza, come se il peso che ho dentro fosse dannatamente reale. Poi l’arbitro fischia tre volte. Partita finita. Campionato finito. Torno a casa mia, a Palermo, dove sono nato, dove ho vissuto, dove tutto è cominciato. Saluto Trapattoni. È stato un privilegio lavorare con lui, anche se un appunto glielo devo fare: 'Mister, io non ho ucciso Falcone'. E nessuno ne ucciderà mai il ricordo, finché vivremo con i valori che ha pagato con la vita".