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PENSIERI E PAROLE IN LIBERTÀ Palermo-Roma, i tifosi e Zamparini…

La rubrica del giornalista-tifoso e scrittore Benvenuto Caminiti. Questa settimana, protagonista di "Pensieri e parole in libertà" è la partita persa per 1-0 contro la Roma e lumore dei.

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La rubrica del giornalista-tifoso e scrittore Benvenuto Caminiti. Questa settimana, protagonista di "Pensieri e parole in libertà" è la partita persa per 1-0 contro la Roma e lumore dei tifosi rosanero dopo la terza sconfitta consecutiva. di Benvenuto Caminiti Una pioggerellina sottile e il gelo tutt’intorno: è tutto quel che mi accompagna, tornando a casa, dopo la brutta sconfitta con la Roma. Assieme ai miei foschi pensieri e a una cupa tristezza. Perdere così contro un avversario tutt’altro che irresistibile mi avvilisce: significa aver toccato il fondo, o quasi. Significa tremare dentro perché si riaffaccia, dopo tanto tempo vissuto alla grande (il tempo del Palermo di Zamparini), una paura che credevo non ci riguardasse più: la paura di perdere tutto, di perdere la serie A. Sì, lo so, forse esagero: succede a chi ci tiene da morire e scopre all’improvviso che la tua squadra non c’è più, che s’è dissolta nell’aria, come evaporata. Dopo il 5-1 alla Lazio, che ci ha illusi tutti fino allo stordimento, tre sconfitte di seguito, tutt’e tre brucianti, Siena, Milan e ieri la Roma. Sento un freddo cane, che non ha nulla a che vedere con quest’inverno che non vuole andarsene, perché è un fatto di cuore, di sentimento, di passione, sfibrati da questo Palermo implume, che si consegna agli avversari come vittima predestinata. E allora mi stringo ancor di più nel mio cappotto, come volessi sparirvi dentro e non farmi vedere dalla gente, che sciama via nel suo silenzio di gelo, quello tipico della sconfitta. Non voglio farle vedere che sto piangendo, scosso dai singhiozzi, che non riesco a trattenere, perché ho bisogno di sputar fuori tutto il fiele, ingoiato nei novanta minuti della partita; ho bisogno anche di urlare la mia rabbia, tutta la collera di un tifoso che non ci sta, che non si rassegna a veder sciogliersi come neve al sole, dopo appena venti giorni, la squadra che aveva stritolato la Lazio, seppellendola di gol. Dico, la Lazio, ovvero la terza forza del campionato. E poi ridursi così, dopo solo tre settimane e tre partite. Non ci sto a vedere che anche i tifosi sembrino rassegnati, che prendano le distanze e disertino lo stadio proprio ora che c’è più bisogno di loro, del loro sostegno, della loro passione. Che dev’essere gridata sempre, da lassù, dagli spalti e non davanti alla Tv, solo perché fuori fa freddo e piove pure. E ieri, contro la Roma, l’ho capito già prima del fischio d’inizio, che sarebbe stata dura, guardando tutti quei vuoti tra gli spalti, com’erano brutti, sembravano bocche sdentate, se la ridevano di me, che allo stadio ci vado sempre, anche se fuori fa freddo e magari piove. Che ci andrò ancora finché avrò le forze per andarci, qualunque sorte toccherà, nel frattempo, al mio Palermo. Perché è facile stargli vicino quando splende il sole, esultare nelle vittorie e vantarsene subito dopo, ma tifare significa anche, se non soprattutto, aiutare a risollevarsi nel momento nel quale tutto sembra precipitare. E questo è uno di quei momenti: qui si varrà la nostra nobilitate, come diceva il poeta…Prima a Lecce, partita cruciale, contro un avversario disperato e poi al Barbera contro l’Udinese, squadrone di lusso, che l’ultima volta ci rifilò sette gol e ci rise pure in faccia. Sì, piangevo ieri: tornavo verso casa e mi sentivo solo, anche se, ad ogni passo, inciampavo su tutti gli altri che, come me, lasciavano lo stadio. Sì, piangevo e non me ne vergogno: se piange Ranieri, dopo il secondo gol dell’Inter al Chievo e i suoi occhi, inquadrati in primo piano, per quanto lui tentasse di nasconderli con le mani, si bagnavano di lacrime, perché non può succedere a me? Che ho anche più motivi di lui per commuovermi e lasciarmi andare. Lui, comunque, al peggio, ci rimette il posto, ma gli resta, per consolarsi, il lauto ingaggio. A me, invece, quando perde il Palermo, non resta un bel niente, se non gli sfottò del giorno dopo dei soliti spiritosoni, che mi dicono che sono un povero fesso perché continuo a star dietro e a soffrire per una “squatra che, m’a’ cririri, amico miu, un vali nienti!”. Costoro sono la mia condanna del lunedì, regolare e precisa come un orologio svizzero: non sbagliano un colpo, sembra che non aspettino altro che potermi scagliare addosso le loro frecce avvelenate. E le loro risate sguaiate e la loro allegria insulsa. Che non sa di niente, se non del piacere malsano di vedermi soffrire ancora di più. Gente qualunque, povera gente, che magari tifa per InterMilanJuve senza mai averle davanti agli occhi, se non una volta all’anno e tutto il resto – non so di che resto si tratti – lo “annusano” attraverso la Tv, che è un tramite, laddove per amare c’è bisogno del contatto diretto, e non solo visivo, ma anche fisico, toccar con mano, sentire i gemiti e i sospiri dei propri beniamini, anche solo dopo un allenamento, guardarli negli occhi e capire se ti puoi fidar di loro. Se sono degni di vestire la tua maglia tanto amata e portarla in giro con onore. Sempre, nella vittoria e, ancor di più, nella sconfitta. Ed è quello che hanno sempre fatto i nostri ragazzi da quando son tornati in serie A, sempre lottando con onore, sempre finendo nei primi cinque, sei, sette posti della classifica. Ma ora, dopo questa terza sconfitta di seguito, il mio intemerato cuore di tifoso sembra vacillare, perduto in una domanda cui non sa trovare risposta: ma questa squadra ha le forze, l’orgoglio per risollevarsi e trarsi fuori dalla melma nella quale minaccia di affondare? Ecco, questo è il rovello che da ieri sera mi tormenta. Se bastano una, due defezioni (Silvestre e Migliaccio) per sprofondare così, vuol dire che il gruppo non c’è più e, forse, che non c’è mai stato. E cominciare ad assegnare colpe e castighi sarebbe un errore gravissimo, magari partendo dall’allenatore, che per regola e costume è sempre il primo – e spesso il solo – a pagare. Che il nostro presidente non si lasci irretire dalle “solite” tentazioni; che per una volta possa resistervi, confermando la fiducia al mister. Che non ascolti, almeno stavolta, il messaggio di Oscar Wilde: “L’unica maniera di resistere alle tentazioni è cedervi!”. Ma era solo un aforisma, e col pallone, e con le passioni che esso è capace di suscitare nelle genti, non c’entra proprio nulla. Resista, dunque, Zamparini ed anzi stia ancora più vicino alla squadra e, per una volta, rompa con le sue abitudini e la segua pure in trasferta. A cominciare da Lecce. Il “popolo rosanero”, che da tempo glielo chiede, apprezzerebbe. E, son sicuro, tornerebbe compatto ogni domenica allo stadio.