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PENSIERI E PAROLE IN LIBERTA Giulio Migliaccio, elogio di un uomo vero

di Benvenuto Caminiti Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio,.

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di Benvenuto Caminiti Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio, Giulio Migliaccio: scritto dieci volte, ma sarebbe più giusto cento, mille volte, così sconfinata è la mia ammirazione per il giocatore e per l’uomo. Più per l’uno che per l’altro? No, per entrambi nella stessa misura: sterminata. Alla fine è intervistato e gli ridono gli occhi prima ancora del suo sorriso franco e radioso così com’è lui nell’anima: una persona schietta, sincera, generosa. E si vede anche da come gioca, dovunque lo piazza l’allenatore, a centrocampo dov’è nato e cresciuto come calciatore o lì dietro, ultimo baluardo davanti al portiere. Col Milan è stato semplicemente monumentale, non ha sbagliato un intervento, ha sbaragliato il campo, e sembrava avere due marce in più; sceglieva così bene il tempo dell’anticipo da sembrare - lui che per stazza e lunghe leve, non è certamente un fulmine di guerra – più agile e veloce di autentici proiettili umani come Pato, Cassano e Robinho. Tra i tanti mi è rimasto impresso nella retina un suo intervento in scivolata, praticamente da ultimo uomo, su Robinho lanciato verso il gol; era il 90’ o giù di lì, se sbagliava quella palla il brasiliano sarebbe entrato in porta e addio vittoria scaccia crisi. Ma Migliaccio non ha sbagliato, ha uncinato il pallone in extremis, l’ha trattenuto in campo sempre scivolando col destro e ha sventato la minaccia. Sontuoso! Eppure, a partita finita, sorridendo come un bambino felice, distribuiva con naturalezza perle di saggezza e semplicità, sorvolando sui suoi (grandi) meriti per soffermarsi su quelli della squadra, tornata finalmente quella di un tempo, quando la gente rosanero era felice del suo Palermo e ne vantava a testa alta solo le qualità: “Ora la nostra magnifica tifoseria può tornare a sognare – diceva tra l’altro – perché questa vittoria è tutta per lei, che non ci ha mai fatto mancare il suo affetto, neanche dopo l’umiliante 0-7 casalingo con l’Udinese. Che pubblico che abbiamo, ragazzi!”. E all’intervistatore che gli chiedeva se preferisse giocare in difesa o a centrocampo, rispondeva sorridendo: “Io veramente sono un centrocampista ma mi credi se ti dico che giocare lì dietro mi piace da morire?”. Certo che ti crediamo, grande Migliaccio; ti piace perché lì dietro puoi diventare determinante per le sorti della partita e della tua squadra, come più volte hai fatto ieri col Milan, specie in quell’intervento in scivolata che ha tolto dai piedi di Robinho una palla che sembrava destinata al gol. Certo che ti crediamo perché, anche nella peggiore partita della tua squadra, tu non puoi rimproverarti nulla, perché hai dato tutto come sempre; come sempre hai sputato l’anima in campo e alla fine, vittoria o sconfitta che sia, non dimentichi mai di andare sotto la curva per salutare e ringraziare i tifosi. Mi fai pensare, caro Migliaccio, a quella canzone che parla della “vita da mediano”, anche se chi l’ha scritta non l’ha fatto certo per te ma pensando ad Oriali perché è interista: ebbene, fossi un musicista, io ne scriverei una per te e non la intitolerei “una vita da mediano”, ma semmai “rosanero a vita”, perché tu incarni alla perfezione il giocatore che tutti i tifosi vorrebbero per sempre. Perciò ti dico grazie a nome mio e dei tifosi in generale che mi sento di rappresentare compiutamente e non tanto per i miei meriti ma per i tuoi, perché si ama e si delira per il fuoriclasse ma si resta fedeli fino all’ultimo solo per le bandiere, quelle vere, quelle che dimostrano di esserlo ad ogni partita e non a parole o dopo aver segnato un gol da favola. Come succede alle stelle del calcio, che arrivano, irradiano luce, mandano bagliori accecanti di classe ma poi svaniscono, rapiti dai grandi club e dai fastosi ingaggi. E succede a tutti i supercampioni, anche a quelli che hanno promesso fedeltà per la vita ai nostri colori. Nulla di scandaloso, tutto ciò fa parte del sistema: se ti chiami Kjaer, Cavani e, un domani, Pastore, è logico e fatale che non puoi - e forse non devi – resistere troppo a lungo al canto delle sirene. E allora cambi maglia e sembra, dubito dopo i primi gol con la nuova squadra, che il tuo vecchio Palermo non esista più, svanito nel nulla come una nuvola spazzata via dal sole. Ma questo capita solo ai supercampioni, quelli baciati in fronte dalla dea del calcio, non certo ai faticatori del pallone come te, che sei diventato quel che sei - e sei quel che sei diventato - a furia di corse e rincorse, allenamenti ed allenamenti, sacrifici e rinunce; insomma, sputando l’anima giorno dopo giorno per affinare la tecnica ed avere l’enorme soddisfazione di riuscirci solo per meriti tuoi e non per aver ricevuto dalla sorte quel tocco in più che spetta solo a quelli nati con la camicia, a quelli che campioni non lo sono diventati ma c’erano già prima ancora …di nascere. E ti dico grazie, infine, perché alla fine hai guidato tu il drappello dei giocatori sotto la Curva Nord; ti ridevano gli occhi e si vedeva da lassù, là dove riposano gli angeli, come recitava uno struggente striscione dedicato a Livia: “Il tuo sorriso sempre nei nostri cuori. Ciao, Livia”.