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PENSIERI E PAROLE IN LIBERTA’ Palermo-Udinese 0-7, la vergogna e l’umiliazione dei tifosi

di Benvenuto Caminiti Dopo una notte insonne ed agitatissima, decido di alzarmi e non sono ancora le sette; ho gli occhi gonfi di pianto, il cuore spezzato ed un senso di vergogna che non finisce.

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di Benvenuto Caminiti Dopo una notte insonne ed agitatissima, decido di alzarmi e non sono ancora le sette; ho gli occhi gonfi di pianto, il cuore spezzato ed un senso di vergogna che non finisce mai, che mi opprime, mi serra la gola: non mi era mai successo prima, neanche ai tempi dello spareggio fallito contro la Battipagliese, col Palermo che finiva in C2; neanche ai tempi della radiazione, col Palermo che finiva di giocare al calcio nel suo stadio e altrove; neanche ai tempi del doppio scandalo delle scommesse che ci vide coinvolti e colpevoli, col Palermo che partiva in campionato con cinque punti di penalizzazione. Dicevo: non mi era mai successo prima perché mai era successo di beccarne sette in casa e di stare a guardare gli avversari prendersi gioco di te, senza un moto di ribellione, senza un grido di dolore. Neanche da parte del pubblico, che restava impietrito come incredulo davanti ad uno scenario di follia che niente aveva di reale: era tutto un sogno, anzi un incubo. Dai, svegliamoci e ricominciamo a giocare… Prima ancora che Di Natale calciasse il rigore del 7-0 per l’Udinese, io mi sono alzato di scatto e, veloce come non sono più ormai da anni, me la sono filata. A testa bassa, trattenendo il respiro, come un ladro, che se la svigna furtivo, per non farsi vedere. Sopraffatto dalla vergogna, sono scappato. Sì, scappato ed è questa l’unica cosa della quale non mi vergogno, anche se era la prima volta in sessant’anni di (inde)fesso tifo rosanero. Non sentivo più neanche il brusio della folla mentre mi precipitavo fuori dal ventre dello stadio, che in quel preciso momento, per la prima volta … in carriera, mi sembrava più una prigione che la magnifica sede dei miei interminabili sogni rosanero. Appena fuori, all’aria aperta, nel piazzale, ho ripreso a respirare, come essermi liberato di un peso insopportabile: la vergogna c’era ancora, ma lì, al sole sfavillante di ieri pomeriggio, la sopportavo da uomo. E mi sono stranamente placato, ho rallentato il passo e proceduto tranquillo, come dopo una scampagnata. Non vedevo e non sentivo nulla attorno a me, come ovattato in un silenzio irreale, che era solo mio, visto che d’intorno molti altri tifosi, sciamavano via imprecando. Il Palermo, che di me ha fatto sempre quel che ha voluto (mi ha strapazzato, mi ha blandito, mi ha fatto saltare in groppa ai sogni e poi buttato via come uno straccio) ieri mi ha inferto il colpo peggiore : mi ha così coperto di vergogna da costringermi ad abbandonare lo stadio prima del fischio finale. Mi riesce difficile, ora come ora, pensare che il mio tifo adamantino, capace di resistere a tutte le umiliazioni sportive ( e non solo), umanamente possibili, sopravvivrà anche dopo il 7-0 di ieri. E alla vergogna che ne è seguita, non solo per la caterva di gol subiti ma di più per l’atteggiamento passivo, come non gliene fregasse niente, dei giocatori. Che hanno smesso troppo presto di lottare, appena dopo il 2-0, ed invece si lotta sempre, fino all’ultimo respiro, anche solo per onorare la maglia. Ed ieri non l’hanno fatto e questo per me, innamorato marcio di questi colori, non è tollerabile, è la vergogna che mi costringe ad abbandonare il mio posto e scappar via. Mi sentivo tradito, come mai m’era successo in tanti anni di tifo rosanero. E come me, tutti gli altri sugli spalti, quelli che sono rimasti (i più) e quelli che hanno lasciato anzitempo. Dell’inferno di eri – perché di inferno si tratta, mica di altro - mi restano impressi nella retina due flash: la faccia impietrita di Delio Rossi che rimane ritto davanti alla sua panchina ben oltre il fischio finale di Peruzzo (mentre, tra i fischi assordanti, buona parte della folla gli dedica un coro di incoraggiamento) e lo sgomento di capitan Miccoli, che con lo scempio di ieri non c’entra per nulla perché infortunato. Rossi dirà poi, in conferenza stampa, di esser rimasto lì, davanti alla su (ex) panchina per la vergogna che gli impediva letteralmente di muoversi. E Miccoli, con la voce spezzata dall’emozione, dirà invece che “Non si può buttar via un anno e mezzo di lavoro quando ancora mancano dieci partite da giocare alla morte ed abbiamo davanti ancora degli obiettivi importanti”: da buon capitano, non depone le armi e lancia la sfida. Speriamo che gli altri seguano il suo esempio, a cominciare dal presidente che ha già licenziato Rossi e non vorremmo mai che, così facendo, avesse decretato la fine anticipata della stagione rosanero: via Rossi, via l’Europa, via la coppa Italia. Chi vivrà vedrà. Certo è che gli alibi ormai non contano più; questa squadra se li è giocati tutti, come i jolly a poker. Ora debbono mostrare di che pasta sono fatti. I tocchetti e le finte non bastano più, ora conta lottare e sputare sangue. Dal primo al novantesimo. E se la vita – non solo il calcio, che con essa almeno per me si fonde e si confonde – mi ha insegnato qualcosa io dico che l’arrivo di Serse Cosmi la cosiddetta scossa del cambio-allenatore la darà. Altro che, se la darà. E non solo perché lui è un guerriero del calcio ma anche perché conosce bene i tre caporioni (detto nel senso buono) di questo Palermo: Giovanni Tedesco, che se è stato un signor giocatore in gran parte lo deve alle sue lezioni; capitan Miccoli, che nelle sua mani da promessa diventò il campione che conosciamo e Fabio Liverani, davvero “inventato” da Cosmi: tutti dicevano che lento com’era non sarebbe mai diventato un calciatore vero ed invece… Insomma, ho bisogno, abbiamo bisogno tutti, di credere che il peggio sia passato e che da domenica prossima, in notturna all’ ”Olimpico” contro la Lazio (che era di Rossi, com’è diventato ormai anche il Palermo) ricominceremo a sognare. E se non proprio a sognare, almeno a credere di nuovo nei nostri colori. E a vantarcene, com’è naturale che sia.